17/06/14

CH-4

CORPUS HERMETICUM

— Libro IV —
DISCORSO DI ERMETE A TAT: DEL CRATERE O DELLA MONADE

Discorso di Ermete al figlio Tat.
[1-2] Il Demiurgo ha creato il mondo con l'aiuto del Logos. Il Demiurgo è sempre esistente, sempre presente, e il suo corpo è costituito dalla totalità degli esseri esistenti. Infatti Egli non è fuoco, né acqua, né aria, né soffio vitale, ma da lui derivano tutte le cose. L'uomo, vivente mortale,  fu creato da Dio come "ornamento" del Demiurgo, vivente immortale; e se il Demiurgo è superiore agli altri esseri viventi, in quanto immortale, l'uomo a sua volta è superiore a Lui in quanto dotato di ragione e intelletto, e perciò capace di ammirare e conoscere il creatore.
[1] « Poiché il demiurgo ha creato il mondo nel suo insieme, non con le mani, ma con il Logos, consideralo come presente, sempre esistente, il creatore di tutto, l’uno e il solo, come colui quindi che per sua propria volontà ha foggiato gli esseri esistenti. In ciò infatti consiste il suo corpo; un corpo che non si può toccare, né vedere, né misurare, che non possiede estensione e non è simile a nessun altro corpo. Infatti egli non è fuoco, né acqua, né aria, né soffio vitale, ma da lui derivano tutte le cose. Poiché egli è buono, non ha voluto riservare solo a sé questo dono e per sé solamente ornare la terra. [2] Come ornamento di questo corpo divino, Dio ha inviato quaggiù l’uomo: un vivente mortale come ornamento di un vivente immortale. E se il mondo ha conseguito la superiorità sugli esseri viventi, in quanto immortale, l’uomo a sua volta è superiore a lui, in quanto dotato di ragione e intelletto. L’uomo infatti è divenuto il contemplatore dell'opera di Dio, ed è stato capace di ammirare e conoscere il creatore. »
[3-5] Dio ha distribuito la ragione a tutti gli uomini, ma non l'intelletto: questo volle che fosse per le anime un premio da conquistare. Per questo Dio riempì dell'intelletto un grande cratere che inviò sulla terra tramite un messaggero, con l'ordine di annunciare agli uomini queste parole: “Immergi te stesso, tu che lo puoi, in questo cratere, tu che aspiri a risalire fino a colui che l’ha inviato quaggiù, tu che sai perché sei nato”. Coloro che lo fecero ricevettero l'intelletto, furono resi partecipi della conoscenza e divennero uomini perfetti; gli altri, coloro che non vollero ascoltare le parole del messaggero, furono dotati di sola ragione e restarono nell'ignoranza, senza sapere per quale fine fossero nati né da chi. La vita di costoro è simile a quella degli animali privi di ragione, soggetti come sono alle passioni e rivolti unicamente ai piaceri materiali, che credono essere l'unico scopo della loro esistenza. Rispetto a costoro, gli uomini dotati di intelletto sono tanto superiori quanto esseri immortali di fronte a mortali, poiché tutto comprendono con il proprio intelletto.
[3] « Dio ha distribuito la ragione a tutti gli uomini, o Tat, ma non così ha fatto per l’intelletto. [...] [4] [...] Ne ha riempito un grande cratere, che ha inviato sulla terra, nominando per questo un messaggero, con l’ordine di annunziare ai cuori degli uomini queste parole: “Immergi te stesso, tu che lo puoi, in questo cratere, tu che aspiri a risalire fino a colui che l’ha inviato quaggiù, tu che sai perché sei nato”. 
« Quanti dunque si radunarono ad ascoltare il messaggero e si immersero nel cratere contenente l'intelletto, furono tutti resi partecipi della conoscenza e divennero uomini perfetti, avendo ricevuto l'intelletto; quanti invece non vollero ascoltarlo, furono dotati di sola ragione, non di intelletto, ignorando così per qual fine sono nati e da chi. [5] Le sensazioni di costoro sono simili a quelle degli animali privi di ragione: il loro temperamento è soggetto all’ira e alla collera, non contemplano le cose degne di essere ammirate, sono rivolti unicamente ai piaceri e agli appetiti del corpo e credono che l’uomo sia stato generato solo per questo. Quanti invece parteciparono del dono di Dio, questi, o Tat, quando si confrontano con gli altri, sono come esseri immortali di fronte a mortali, poiché tutto comprendono con il proprio intelletto: tutto ciò che è sulla terra, nel cielo, e tutto ciò che è al di sopra del cielo, se pur vi è qualcosa al di sopra del cielo. [...] »
[6-7] Questa è la scienza dell’intelletto: possesso delle cose divine e comprensione di Dio. Tat afferma di voler anch'egli immergersi nel cratere. Ermete replica che non potrà farlo se prima non avrà disprezzato il suo corpo: solo così potrà amare se stesso; amando se stesso acquisterà l'intelletto e, possedendo l’intelletto, parteciperà della scienza. Per ogni uomo è necessario fare una scelta fra le cose terrene e quelle divine: è impossibile ottenere entrambe; né del resto sarebbe ragionevole, perché la via che riconduce l'uomo a Dio è incomparabilmente migliore di quell'altra.
[6] « Questa, o Tat, è la scienza dell’intelletto; possesso delle cose divine e comprensione di Dio, poiché divino è il cratere. »
« Anch'io voglio immergermi nel cratere, o padre. »
« Se prima non avrai disprezzato il tuo corpo, o figlio, non potrai amare te stesso. Amando te stesso acquisterai l'intelletto e, possedendo l’intelletto, parteciperai della scienza. [...] È impossibile, o figlio, ottenere ambedue le cose, quelle mortali e quelle divine. [...] »
[...]
[8-9] Non è Dio la causa del male, bensì l'uomo con le sue scelte, quando sceglie le cose terrene anziché quelle divine; ma l'uomo ha sempre la possibilità di optare per la via che lo riconduce a Dio. Questa via è una strada tortuosa, difficile, che consiste nell'abbandonare le cose più familiari, tangibili, piacevoli, per cercare quelle più inaccessibili e sottili. Una via che riconduce l'uomo alla sua meta, Dio, dopo innumerevoli esistenze in forma umana e superumana.
[...]
[9] « [...] Prendiamo dunque l’avvio da questo principio e percorriamo tutto il bene velocemente. È una strada tortuosa, che consiste nell’abbandonare le cose familiari e presenti per risalire alle antiche e primordiali. Le cose che si mostrano ai nostri occhi ci recano piacere, mentre quelle che non sono visibili suscitano dubbi. Le cose cattive sono quelle che più facilmente si mostrano alla vista, il bene è inaccessibile agli occhi [...] »
[10-11] Principio e radice di tutte le cose è la monade.1 La monade esiste in tutte le cose, comprende tutte le cose senza esserne compresa, genera tutte le cose senza esserne generata; è perfetta e immutabile in sé stessa, pur partecipando al divenire di tutte le cose.
[10] [...] « La monade pertanto, essendo principio e radice di tutte le cose, esiste in tutte le cose. Niente esiste infatti senza principio. Il principio invece non deriva da nulla se non da se stesso, in quanto è principio di tutte le cose. Essendo dunque principio, la monade comprende ogni numero, senza essere compresa da alcun numero. Essa genera ogni numero, senza essere generata da nessuno di essi. [11] Tutto ciò che è generato è imperfetto e divisibile, passibile di accrescimento e di diminuzione; niente di tutto questo riguarda ciò che è perfetto. Ciò che è passibile di accrescimento, deriva il suo accrescersi dalla monade, ed è vinto dalla propria debolezza quando non è più in grado di contenerla. [...] »

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NOTE

1 Il termine "monade" fu adottato molto presto nella storia della filosofia greca, con significati diversi a seconda dei contesti in cui è stata utilizzata. Nel CH sta ad indicare l'essenza divina indivisibile e immutabile, l'Uno, e in questo senso può risalire al neoplatonismo.
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03/06/14

CH - 3

CORPUS HERMETICUM

— Libro III —
DISCORSO SACRO DI ERMETE

Trattato attribuito a Ermete.
[1-2] L’universo, la natura sono divini. Dio è principio, natura, attività, necessità, fine e rinnovamento di tutti gli esseri; Egli è intelletto, natura, materia; è la saggezza volta alla rivelazione di tutte le cose. In principio c'era "tenebra infinita nell'abisso",1 acqua, caos degli elementi descritto come "natura umida"; un "soffio sottile", dotato di capacità intellettiva, era l'aspetto divino presente nell'universo non ancora formato. Poi dalla natura umida si staccò una "luce santa" e si innalzò; mentre tutte le cose erano ancora indefinite, gli elementi si condensarono e si separarono per azione del fuoco e del soffio vitale: quelli leggeri salirono verso l'alto, quelli pesanti si depositarono in basso sulla "sabbia umida".2 Allora apparvero le sfere celesti e gli dèi sotto forma di astri, uniti in costellazioni; il cerchio più esterno, trascinato dal soffio divino, cominciò a volgere con moto circolare nell'aria abbracciando il tutto.
[1] Gloria di tutte le cose è Dio, e l’universo è divino, la natura è divina. Principio di tutti gli esseri è Dio, che è intelletto, natura e materia, che è saggezza volta alla rivelazione di tutte le cose. Il divino è principio, è natura, attività, necessità, fine e rinnovamento. 
C'era tenebra infinita nell’abisso, e acqua, e un soffio sottile, dotato di capacità intellettiva; questi elementi esistevano nel caos, grazie alla potenza divina. Da qui una luce santa si staccò dalla natura umida e si innalzò; gli elementi si condensarono e tutti gli dèi divisero gli esseri della natura germinale. [2] Mentre tutte le cose erano indefinite, non ancora formate, gli elementi leggeri si separarono e salirono verso l’alto, quelli pesanti si depositarono in basso sulla sabbia umida; il tutto si era diviso in parti per azione del fuoco, e veniva trasportato dal soffio vitale. E il cielo apparve in sette cerchi, e gli dèi si mostrarono alla nostra vista sotto forma di astri, uniti in costellazioni; la natura celeste si configurò nel suo aspetto con gli dèi in essa contenuti, e il cerchio esterno si volse con moto circolare nell’aria abbracciando il tutto, trascinato dal soffio divino nella sua corsa circolare.
[3] Ciascuno degli dèi realizzò il compito assegnatogli, secondo la propria facoltà, e così nacquero tutti gli esseri viventi, animali e piante. Poi Dio ordinò che fossero creati gli uomini e per mezzo degli dèi pose un'anima in ogni corpo. Gli uomini avrebbero dovuto crescere e moltiplicarsi; dominare tutto ciò che esiste sotto il cielo; conoscere e contemplare la natura, il cielo, la potenza divina; discernere le cose buone dalle cattive; scoprire le arti per creare le cose buone.
[3] Ciascun dio realizzò secondo la propria facoltà ciò che gli era stato assegnato, e così nacquero gli animali, i quadrupedi, i rettili, gli acquatici, gli alati, e ogni seme germinale, l’erba e il germoglio di ogni fiore, e in sé avevano il seme della rigenerazione. Dio ordinò poi che fossero creati gli uomini, affinché conoscessero le opere divine, affinché dessero testimonianza dell’attività della natura,3 affinché si accrescessero di numero, affinché dominassero tutto ciò che esiste sotto il cielo, affinché riconoscessero le cose buone, affinché crescessero e si moltiplicassero. Pose ogni anima nella carne del corpo per mezzo degli dèi che si volgono nel cielo. [...]
[4] Comincia allora per gli uomini l'esistere, costituito di nascita e morte, crescita e decrescita, dissoluzione e rinnovamento; con la possibilità di evolvere e divenire saggi, secondo la sorte assegnata loro dagli dèi. Tutto secondo una legge di necessità che regola il cosmo intero, giacché divino è l'ordinamento del mondo e il suo rinnovamento naturale.

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NOTE
1 Si apre qui una cosmogonia simile a quella esposta nel Poimandres, ma l'ordine iniziale appare invertito: non si comincia dalla luce, ma dalla tenebre, come in Genesi.
2 La sabbia umida è uno degli elementi primi della cosmogonia egizia.
3 Nei testi ermetici è frequente il tema della creazione dell'uomo per la necessità di un contemplatore delle opere divine.
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01/06/14

CH - 2

CORPUS HERMETICUM

— Libro II —

Discorso di Ermete ad Asclepio. Il trattato è senza titolo; nel CH prende il posto di un trattato perduto, di cui si conosce il titolo (Discorso universale di Ermete a Tat).
[1-3] Ermete illustra ad Asclepio la natura del moto e delle relazioni reciproche fra causa del moto, corpo mobile e spazio in cui il moto si svolge. Innanzitutto, ciò che è soggetto al movimento (un corpo) si muove entro qualcosa (lo spazio) e per effetto di qualcos'altro (un altro corpo). Poi, è necessario che lo spazio sia più grande del corpo che si muove, per permettere il movimento stesso. Ancora, si deve postulare che il corpo che causa il moto sia più forte del corpo mosso; che i corpi mobili siano diversi per natura dal "qualcosa" (spazio) in cui il movimento si svolge; che non ci può essere alcun corpo più grande dell'universo; che l'universo stesso è un corpo, costituito da tutti i corpi che esso contiene senza soluzione di continuità; che l'universo è un corpo mobile, e pertanto il luogo (spazio) entro cui si muove l'universo dev'essere più grande dell'universo stesso.
[1] « Tutto ciò che è soggetto al movimento, o Asclepio, non si muove forse in qualcosa e per azione di qualcosa? [...] E non è necessario che ciò in cui l’essere mobile si muove sia più grande di ciò che si muove? [...] E dunque ciò che è causa del moto non è più forte di ciò che è mosso? [...] E ciò che si muove deve necessariamente avere una natura diversa da ciò in cui si muove? [...] [2] È dunque grande quest'universo, non essendoci nessun corpo più grande di lui? [...] Ed è compatto? Infatti è pieno di molti altri grandi corpi, anzi di tutti i corpi esistenti. [...] Ma non è forse un corpo l'universo? [...] Ed è un corpo che si muove? [3] [...] Quanto grande dunque deve essere il luogo, in cui si muove l’universo, e di quale natura è dotato? Non deve forse essere molto più grande, perché possa contenere in sé il movimento continuo del mondo, e perché ciò che si muove non sia compresso dalla strettezza del luogo e non arresti il proprio movimento? [...]  »
[4-6] Ermete passa quindi a considerare la relazione fra corpi mobili e spazio, e osserva che la natura dello spazio dev'essere contraria a quella dei corpi mobili: pertanto lo spazio è incorporeo, ovvero qualcosa di divino, in quanto ingenerato; anzi, si può dire che l'incorporeo sia un aspetto di Dio stesso. Se dunque l'incorporeo è un aspetto di Dio, la sua natura pertiene al mondo dell'essenza, il mondo intelligibile (in contrapposizione al mondo della materia, il mondo sensibile): ne consegue che lo spazio è intelligibile, in quanto pertiene al mondo intelligibile, sia che lo si concepisca come ente incorporeo, quale luogo del movimento, sia che lo si concepisca come aspetto di Dio, quale attività capace di contenere tutto.
[4] « Ma di quale natura sarà questo luogo? Non sarà dunque di natura contraria a ciò che si muove, o Asclepio? E la natura contraria a quella di un corpo è l’incorporeo. [...] Il luogo, dove l'universo si muove, deve essere allora incorporeo; ma l'incorporeo è qualcosa di divino, o meglio è Dio stesso. (Per “qualcosa di divino” intendo non ciò che è stato generato, ma l'ingenerato.) [5] Se dunque l'incorporeo è qualcosa di divino, la sua natura è quella dell'essenza, se è Dio stesso, è anche privo di essenza. Inoltre è anche intelligibile, perché per noi l’intelligibile primo è Dio, ma egli non è tale per se stesso. Ciò che è intelligibile cade infatti sotto i sensi di colui che lo pensa; Dio quindi non può essere pensato da se stesso, poiché non è altro dall'oggetto pensato, per il fatto che pensa se stesso. [6] Ma rispetto a noi Dio è qualcosa di altro da noi e perciò è per noi intelligibile. Se dunque il luogo è per noi intelligibile, non lo è in quanto Dio, ma in quanto luogo. Se invece è per noi intelligibile anche come Dio, non lo pensiamo come luogo, ma come attività capace di contenere tutto. Tutto ciò che si muove, non si muove in qualcosa che è in movimento, ma in qualcosa che sta immobile. E così ciò che produce il movimento è immobile, essendo impossibile che si muova insieme a ciò che fa muovere. »
[6-9] Tutto ciò che si muove si muove in qualcosa che sta immobile: ciò che produce il movimento è immobile,1 né potrebbe essere diversamente. Asclepio obietta che nel mondo materiale i corpi mossi si muovono insieme ai corpi che li muovono: quest'ultimi non restano affatto immobili, e le sfere stesse dei pianeti sono mosse dalla sfera delle stelle fisse. Ermete precisa che l'immobilità dell'universo va intesa come bilanciamento di movimenti contrari, resi stazionari dalla reciproca opposizione; a cominciare proprio dalle sfere dei pianeti che si muovono in senso contrario a quello delle stelle fisse e traggono il loro movimento dall'assoluto equilibrio della stasi.2 Ermete porta l'esempio di un uomo che, nuotando, si contrappone alla corrente d'acqua, senza esserne trascinato via; e ribadisce che il movimento si attua nell'immobilità ed è prodotto da ciò che è immobile. Il movimento di ogni corpo materiale non proviene da cause esterne al corpo, cioè da altri corpi, ma da cause interne che operano dall'interno verso l'esterno: vale a dire dagli intelligibili, come l'anima, il soffio vitale o altri elementi incorporei.
« Come mai allora, o Trismegisto, le cose di quaggiù si muovono insieme alle cose che le fanno muovere? Tu infatti hai detto che le sfere dei pianeti sono mosse dalla sfera delle stelle fisse. »
« Non si tratta, o Asclepio, di un movimento comune, ma di un movimento contrario; non si muovono infatti nella stessa direzione, ma in senso opposto le une alle altre, e tale opposizione implica un'opposizione di movimento, che è equilibrio. [7] Infatti l’opposizione determina l'arresto del movimento. Così dunque le sfere dei pianeti, muovendosi in senso contrario a quello delle stelle fisse, traggono il loro movimento dalla stasi che è generata, nel punto di opposizione, dall'opposizione stessa, che si ha fra di loro, ed è impossibile che avvenga diversamente. [...] [8] Voglio farti un esempio che può cadere sotto i tuoi occhi. Guarda gli esseri mortali; l'uomo, per esempio, quando nuota. L’acqua è trascinata velocemente, l'opposizione dei piedi e delle mani produce per l’uomo stasi, per cui non è trascinato via dalla corrente. [...] Ogni movimento dunque si attua nell'immobilità ed è prodotto da ciò che è immobile. Il movimento del mondo e di ogni essere vivente materiale non c’è caso che provenga da cause esterne al corpo, ma da cause interne che operano dal di dentro verso l’esterno, cioè dagli intelligibili, come l'anima, o il soffio vitale o qualunque altro elemento incorporeo. Un corpo infatti non può muovere un altro corpo animato, né in generale può muovere un corpo, anche se questo è inanimato. »
 [9] « Come dici, o Trismegisto? I pezzi di legno dunque, le pietre e tutti gli altri esseri inanimati, non sono forse mossi da corpi? »
« Per niente, Asclepio, perché è ciò che si trova nell’interno del corpo che muove la cosa inanimata, e non il corpo stesso che genera il movimento di ambedue, sia del corpo che porta, sia del corpo che è portato; è per questo che un corpo inanimato non potrà muovere un altro corpo inanimato. [...] »
[10-11] Ermete prosegue negando l'esistenza del vuoto: niente di ciò che esiste è vuoto, per il fatto stesso che esiste. I vuoti che si osservano nella materia sono apparenti, sono cavità riempite di aria e di elementi sottili (come il soffio vitale).3
[10] « È necessario che il movimento dei corpi che si muovono si realizzi nel vuoto, o Trismegisto? »
« Stai attento a come parli, Asclepio! Niente di ciò che esiste è vuoto, per il fatto stesso che esiste. Ciò che è, infatti, non potrebbe essere tale, se non fosse pieno del reale; il reale infatti non può mai essere vuoto. [...] [11] [...] Non è forse un corpo l'aria? [...] E questo corpo non penetra forse attraverso tutti gli esseri e non li pervade, riempiendoli totalmente? E ogni corpo non è costituito dalla mescolanza dei quattro elementi? Dunque tutti i corpi, che tu definisci vuoti, sono pieni di aria; e se sono pieni di aria, lo sono anche dei quattro elementi e così si dimostra vero il discorso contrario al tuo: tutte le cose che tu dici piene sono vuote di aria, non avendo più spazio per accoglierla, sono riempite da altri elementi. Quelle cose che tu definisci vuote, le devi invece chiamare concave, non vuote, perché, per il fatto stesso che esistono, sono piene di aria e di soffio vitale. »
[12-13] Asclepio domanda ancora una volta che cosa sia lo spazio, e che cosa sia Dio. Ermete ribadisce che lo spazio è un essere incorporeo; e l'incorporeo è un intelletto, che nella sua totalità contiene interamente se stesso; libero da ogni corpo, impassibile, intangibile, immobile in se stesso; tale da contenere in sé tutte le cose esistenti, da mantenerle in vita; il principio primo del soffio vitale e dell’anima. Quanto a Dio, Egli non è alcuna di queste cose, ma è la causa dell'esistenza di esse, come lo è di tutte le cose esistenti. Dio dunque non è l'intelletto stesso, ma è causa del suo esistere; non è il soffio vitale, ma è causa del suo esistere; non è la luce, ma è causa del suo esistere. Egli non ha lasciato spazio alcuno al non essere, e tutto ciò che esiste deriva da ciò che esiste e non da ciò che non esiste: infatti, ciò che non esiste non possiede in sé la natura dell'esistenza, la sua natura è tale che non può mai divenire esistente; viceversa, ciò che esiste possiede in sé la natura dell'esistenza, e non può non esistere, né potrà mai.
[12] « Il discorso che hai fatto non è confutabile, o Trismegisto. Come definiremo dunque il luogo in cui si muove l'universo? »
« Un essere incorporeo, Asclepio. [...] Un intelletto, che nella sua totalità contiene interamente se stesso, libero da ogni corpo, immobile, impassibile, intangibile, immobile in se stesso, tale da contenere in sé tutte le cose esistenti, da mantenerle in vita, e i cui raggi possono essere definiti il bene, il vero, il principio primo del soffio vitale e dell’anima. [...] Dio è colui che non è alcuna di queste cose, ma la causa dell'esistenza di esse, come lo è di tutte le cose esistenti e di ciascuna di esse in particolare. [13] Egli non ha lasciato spazio alcuno al non essere, e tutto ciò che esiste deriva da ciò che esiste e non da ciò che non esiste; infatti ciò che non esiste non possiede in sé la natura dell'esistenza, ma la sua natura è tale che non può mai divenire esistente, e viceversa ciò che esiste non ha la proprietà di non esistere mai.  »
[14-17] Il discorso di Ermete si conclude con l'affermazione che gli unici appellativi che si addicono a Dio sono "buono" e "padre".4 Quanto al primo, tutti gli altri esseri sono incapaci di contenere in sé la natura del bene: non gli esseri dotati di corpo e anima (come gli uomini), né tanto meno gli esseri materiali. Sarebbe empio definire "buono" un altro essere, come sarebbe parimenti empio non definire "buono" Dio. Il bene non può essere astratto da Dio, essendo da lui inseparabile, è Dio stesso. L’essere realmente buono è quello che dona tutto e che nulla riceve; Dio dona tutto e non riceve nulla: dunque Dio è il bene, e il bene è Dio. Quanto all'appellativo di "padre", esso deriva dalla facoltà di creare tutto ciò che esiste, poiché l’attività del creare è propria del padre; da ciò consegue, inoltre, che la procreazione è la funzione più importante e più santa, e non procreare è una colpa che viene espiata con la condanna a reincarnarsi nel corpo di un essere né uomo né donna.
[14] « [...] Dio dunque non è l'intelletto stesso, ma è causa del suo esistere, non è il soffio vitale, ma è causa del suo esistere, non è la luce, ma è causa del suo esistere. Da ciò consegue che bisogna adorare Dio con questi due soli appellativi, i quali si addicono a lui solamente e a nessun altro essere. Nessuno infatti degli altri esseri chiamati dèi, nessuno degli uomini, nessuno dei dèmoni, per quanto grande sia, può essere buono, eccetto Dio. Ed egli è solamente buono e nient’altro. Tutti gli altri esseri sono incapaci di contenere in sé la natura del bene; poiché sono corpo e anima, e non hanno spazio che possa contenere il bene. [15] Tanto immensa è la grandezza del bene, quanto grande è l'esistenza di tutti gli esseri, corporei e incorporei, sensibili e intelligibili. In questo consiste il bene, in questo consiste Dio. Non definire dunque nessun’altra cosa con il termine “buono”, perché commetteresti un'empietà, e non definire Dio con altro appellativo che non sia quello di “buono”, perché anche così commetteresti un’empietà.  »
[...]

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NOTE
1 È la dottrina aristotelica del motore immobile, che è presupposto come causa di ogni movimento.
2 Questo è un principio ermetico fondamentale: la dualità di tutti i fenomeni naturali e il perfetto equilibrio delle polarità contrapposte. Nel Kybalion, tali concetti sono espressi nei due principi di Polarità e Ritmo.
3 La negazione del vuoto, che richiama l'horror vacui di ascendenza aristotelica, sembrava essere stato liquidato dalla scienza moderna, o meglio dalla fisica classica, che sullo spazio vuoto ha formulato tutte le sue leggi fondamentali; ma gli sviluppi più recenti, fondati da una parte sulla teoria della relatività e dall'altra sulla meccanica quantistica, hanno significativamente riproposto l'esigenza di postulare un continuum spazio-temporale, se non proprio una sorta di etere "rivisitato".
4 Il problema dei nomi di Dio è tema comune dell'ermetismo. Oltre agli appellativi di "buono" e "padre", qui citati, troviamo nel CH anche l'identificazione di Dio con il bello, di origine platonica; ma troviamo anche le affermazioni che Dio possegga legittimamente tutti i nomi, perché è tutto ciò che ha creato, e che all'opposto sia privo di nomi, perché assolutamente trascendente. Non si tratta di contraddizioni, ma semplicemente dei differenti punti di vista da cui si può considerare il problema.
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30/05/14

CH - 1

CORPUS HERMETICUM

DISCORSO DI ERMETE TRISMEGISTO: POIMANDRES

Racconto di Ermete sull'incontro con Poimandres, l'Intelletto supremo.
[1-3] In un momento di meditazione profonda, appare a Ermete la visione di un essere di smisurate dimensioni, che si qualifica con il nome di Poimandres, ovvero l'intelletto divino.
[1] Un giorno, in cui riflettevo sugli esseri e il mio pensiero si era innalzato a grandi altezze, mentre i miei sensi corporei erano tenuti a freno, come accade a coloro che cadono nel sonno, dopo essersi abbondantemente saziati di cibo o dopo aver sopportato una fatica fisica, mi sembrò che una figura di smisurate dimensioni mi apparisse dinanzi e mi chiamasse per nome e mi dicesse: « ­ Che cosa vuoi udire e vedere, che cosa apprendere e conoscere con il tuo intelletto?  »
[2] E io allora: «  Tu chi sei?  ».
«  Io sono — rispose — Poimandres, l'intelletto del Sovrano assoluto, so cosa vuoi e sono totalmente a tua disposizione.  »
[3] Ed io: «  Desidero essere istruito sugli esseri, comprenderne la natura, e conoscere Dio. Come desidero ascoltarti  ».
Egli rispose: «  Tieni bene in mente tutto ciò che desideri imparare e io ti istruirò  ».
[4-6] Poimandres, attraverso una visione complessa ed enigmatica, illustra ad Ermete i principi divini: il primo principio è l'Intelletto supremo (Nous), il Padre, da cui scaturisce il Figlio, il Logos luminoso. Questi due principi si ritrovano, inscindibili, nella scintilla divina vitale che è nell'uomo: l'intelletto umano, inteso come facoltà di conoscenza intuitiva (il Sé superiore), è un riflesso dell'Intelletto di Dio Padre, mentre il Logos si riflette nella facoltà di conoscenza sensibile dell'uomo (il Sé personale).
[4] Dicendo questo mutò d’aspetto, e improvvisamente tutto mi si aprì davanti per un istante. Ed ecco mi appare uno spettacolo infinito: tutte le cose divennero  luce, visione serena  e gioiosa, di cui mi innamorai dopo averla vista. E dopo poco tempo si formò un'oscurità che prese a calare verso il basso, paurosa e cupa, diffondendosi a spirale, simile a un serpente, a quanto mi parve. Poi l’oscurità si mutò in una sorta di natura umida agitata in modo indicibile, esalante un fumo simile a quello che si alza dal fuoco, e che produceva una sorta di suono, un gemito indescrivibile.  E subito emise un grido di aiuto, inarticolato, che somigliava alla voce del fuoco. [5] Dalla luce un santo Logos si diresse verso la natura e dalla natura umida un puro fuoco si sprigionò verso l'alto: era leggero e vivo e al tempo stesso potente, e l'aria essendo leggera seguì il soffio infuocato, elevandosi dalla terra e dall'acqua verso la regione del fuoco, così da sembrare appesa ad esso, mentre la terra e l'acqua rimasero invece mescolate tra loro, indistinguibili l’una dall’altra; a esse era stato impresso il movimento dal soffio del Logos, che si era portato al di sopra di loro, fino a essere udito.
[6] [...] «  Quella luce — continuò — sono io, l'intelletto supremo, il tuo Dio, che esiste prima della natura umida emersa dall'oscurità, mentre il Logos luminoso che è scaturito dall'intelletto è il figlio di Dio. [...] Così intendi: ciò che in te guarda e ascolta è il Logos del Signore, mentre il tuo intelletto è lo stesso Dio padre. Non sono infatti separati l’uno dall’altro, poiché la loro unione è la vita.  »
[...]
[7-11] Attraverso un'altra enigmatica visione, Poimandres mostra a Ermete la forma archetipa, il principio del principio di tutto; e rispondendo a una domanda, spiega che gli elementi della natura furono generati dalla volontà di Dio ad imitazione dei loro modelli archetipi contenuti nel Logos. Dio inoltre, di natura maschile e femminile ad un tempo, generò mediante il Logos un intelletto demiurgo; il Demiurgo, dio del fuoco e dell'etere, a sua volta creò i sette ministri1 che, racchiudendo in cerchi il mondo sensibile, lo governano, e il cui governo è chiamato destino. Quando poi il Logos si distaccò dagli elementi inferiori della natura, lasciandoli come pura materia, e si unì per affinità all'intelletto demiurgo, questi impresse il movimento alle sfere cosmiche, dando origine al divenire della natura e alla generazione degli animali inferiori privi di ragione.
[7] Ciò detto mi guardò a lungo, sì da farmi tremare alla sua vista; poi, quando sollevò il capo, io vidi nel mio intelletto la luce consistente in un numero infinito di potenze, vidi sorgere un mondo infinito, vidi che il fuoco era imprigionato da una forza immensa e manteneva forzatamente l'immobilità; questo io compresi, contemplando la visione con l’aiuto delle parole di Poimandres. 
[8] Mentre io osservavo sbalordito, di nuovo mi si rivolse: «  Tu hai visto nel tuo intelletto la forma archetipa, il principio del principio, che non ha fine  », questo mi disse Poimandres.
«  Ma gli elementi della natura da dove sono sorti?  » dissi io.
Ed egli a queste mie parole disse: «  Dalla volontà di Dio, la quale, avendo accolto il Logos, e avendo visto il bel cosmo, lo imitò, disponendosi in un mondo ordinato mediante i suoi elementi e le sue creature, che sono le anime. 
[9] «  L’intelletto divino, cioè il sommo Dio, essendo di natura maschile e femminile, vita e luce al tempo stesso, generò mediante il Logos un intelletto demiurgo che, essendo dio del fuoco e dell’etere, creò sette ministri, i quali racchiudono in cerchi il mondo sensibile; e il loro governo è chiamato destino. 
[10] «  Immediatamente il Logos, distaccatosi dagli elementi inferiori, si diresse verso la pura natura creata e si unì all'intelletto demiurgo (era infatti della stessa natura), e gli elementi inferiori della natura furono lasciati privi del Logos, come se fossero pura materia.
[11] «  L’intelletto demiurgo unito al Logos, abbracciando i cerchi e imprimendo loro il movimento con stridore, fece ruotare le sue creature con un movimento che ha un inizio indeterminato e un termine senza fine, infatti inizia dove termina. La rotazione di questi cerchi fece nascere dagli elementi inferiori alcuni animali privi di ragione (poiché gli elementi inferiori non avevano più il Logos in se stessi); l’aria generò i volatili, l’acqua gli animali che nuotano; la terra e l'acqua erano state separate per volere di Dio, e la terra generò dal suo seno gli animali, che aveva in sé: i quadrupedi, i rettili, le bestie selvagge e quelle domestiche.  »
[12-15] A questo punto l'intelletto divino, il Padre, generò a immagine di sé l'archetipo dell'Uomo, a cui affidò tutte le proprie opere; e anche l'Uomo, conosciuto ciò che il Demiurgo aveva creato nel fuoco e nell'etere, volle produrre un'opera. Oltrepassate le sfere, l'Uomo discese nel mondo degli esseri mortali e degli animali irrazionali: qui la natura si innamorò della meravigliosa immagine di Dio rispecchiata nell'Uomo, e l'Uomo a sua volta si innamorò della propria immagine riflessa nell'acqua. Decise allora di dimorare nel mondo: la natura lo avvolse e si unì a lui. Per questo motivo gli uomini hanno una doppia natura: maschile e femminile, come il Padre; mortale per il corpo, immortale per l'Uomo essenziale che è in essi; soggetti al destino per quanto attiene al corpo, liberi per quanto attiene all'intelletto.
[12] «  L'intelletto, padre di tutti gli esseri, essendo luce e vita, generò un uomo simile a lui, del quale s’innamorò come della propria creatura; era infatti molto bello, poiché aveva l’aspetto del padre: in realtà Dio s’innamorò della propria immagine, e affidò all’uomo tutte le proprie opere. [13] L'uomo, avendo conosciuto ciò che il demiurgo aveva creato nel fuoco, volle anch’egli produrre un’opera, e ciò gli fu consentito da parte del padre. Giunto dunque nella sfera demiurgica, dove avrebbe avuto pieno potere, conobbe le opere prodotte dal fratello; i ministri si innamorarono di lui e ciascuno di essi lo fece partecipe del proprio stato. Avendo allora conosciuto a fondo la loro essenza e avendo partecipato della loro natura, volle penetrare al di là della superficie sferica dei cerchi e conoscere la potenza di colui che regna sopra il fuoco.
[14] «  L’uomo dunque, avendo il dominio assoluto sul mondo degli esseri mortali e degli animali irrazionali, volle sporgersi a guardare attraverso la compagine delle sfere celesti, dopo averne spezzato l'involucro superficiale, e mostrò così alla natura inferiore la meravigliosa immagine di Dio. Quando la natura ebbe visto l’uomo, che aveva in sé la bellezza che non può mai saziare e tutta la forza attiva dei ministri dei cieli insieme alla forma divina, sorrise d’amore, poiché aveva scorto nell’acqua l’immagine della meravigliosa bellezza dell’uomo e l’ombra di essa sulla terra. L'uomo, a sua volta, avendo visto questa forma simile a sé, presente nella natura, riflessa nell'acqua, fu preso d'amore per essa e volle dimorarvi. Nell'istante stesso in cui lo volle, lo realizzò e venne così ad abitare nella forma priva di ragione; la natura, avendo accolto in se l'amato, si avvolse tutta intorno a lui e così si unirono, poiché ardevano d'amore l'uno per l’altra.
[15] «  Ed è per questo che l'uomo, fra tutti gli esseri che vivono sulla terra, è l’unico che possiede una doppia natura; è mortale per il corpo, immortale per l’uomo essenziale che è in lui. È infatti immortale e domina su tutte e cose, ma si trova anche nelle condizioni degli esseri mortali ed è quindi soggetto al destino. [...] »
[16-19] Incalzato da Ermete, Poimandres spiega la generazione dell'umanità. La Natura, unita all'Uomo, generò sette uomini corrispondenti alla natura dei sette Ministri, cioè dotati di natura maschile e femminile e della potenza di elevarsi al cielo. La Vita e la Luce che era nell'Uomo divennero rispettivamente, nei sette uomini, anima e intelletto. Ora, non solo i sette uomini erano androgini, ma anche tutte le altre creature, a somiglianza dell'uomo; ma trascorsa la prima rivoluzione celeste il legame si ruppe e tutti gli esseri viventi si divisero in maschi e femmine, dando così inizio alle generazioni. Dio stesso comandò alle sue creature di crescere e moltiplicarsi; quanto agli uomini, chi era dotato di intelletto doveva conoscere tutto ciò che esiste, riconoscere se stesso immortale, e comprendere che la causa della morte è l'amore. Cosa che, afferma Poimandres, non tutti sono stati in grado di fare: alcuni, preferendo il corpo, sono rimasti nella tenebra, soggetti al dolore e alla morte.
[16] [...] Poimandres allora riprese: «  Questo, che io ti esporrò, è il mistero che è stato tenuto nascosto fino a questo giorno. La natura, quando si unì all’uomo, generò un qualcosa di mirabile e di prodigioso. Poiché l’uomo possedeva la natura del complesso dei sette ministri celesti, che, come ti ho detto, sono composti di fuoco e di soffio vitale, la natura, senza attendere un istante, generò immediatamente sette uomini, corrispondenti alla natura di ciascuno dei sette ministri, cioè dotati di natura maschile e femminile e della potenza di elevarsi verso il cielo. [...] [17] Così dunque [...] si ebbe la  generazione dei sette uomini: la terra costituì l'elemento femminile, l’acqua l'elemento fecondatore, il fuoco rese maturi i due elementi, l’etere offrì il soffio vitale, e la natura così generò i corpi, foggiandoli secondo la forma dell’uomo. L'uomo, da vita e luce qual era, si mutò in anima e intelletto: la vita divenne anima, la luce intelletto. E tutti gli esseri del mondo sensibile rimasero così fino al termine di una rivoluzione celeste, quand’ebbero inizio le generazioni. [18] [...] Compiutosi il periodo della rivoluzione, il legame, che teneva unite tutte le cose, si ruppe per volere divino. Tutti gli esseri viventi, che erano al tempo stesso di natura maschile e femminile, a somiglianza dell’uomo, si divisero in due e divennero in parte maschili, in parte femminili. Immediatamente Dio con un santo discorso disse loro: “Crescete accrescendovi, e moltiplicatevi in gran numero voi tutti, che siete stati creati e prodotti, e chi possiede l'intelletto riconosca se stesso immortale, sappia che la causa della morte è l’amore e conosca tutto ciò che esiste”.
[19] «  Dopo che Dio ebbe così parlato, la provvidenza determinò le unioni e stabilì le generazioni, valendosi dell’opera del destino e dell'ordinamento delle sfere celesti, e tutti gli esseri si moltiplicarono secondo la propria specie; e chi è stato capace di riconoscere se stesso ha raggiunto quello che è il bene prescelto da tutti, chi invece ha preferito il corpo, che è stato prodotto dall’errore dell'amore, è rimasto nella tenebra, vagando e soffrendo sensibilmente ciò che è connesso con la morte.  »
[20-23] Ermete, incalzato da Poimandres, dimostra di aver ben compreso che il destino degli uomini è una questione di affinità degli elementi: chi resta nell'ignoranza di sé, resta legato al corpo e al mondo materiale, dunque alla morte; viceversa, chi riconosce se stesso, riconosce di essere costituito di luce e vita, come il Padre, e pertanto non può che ritornare a Lui. Alla domanda di Ermete, se non tutti gli uomini siano dotati di intelletto, Poimandres risponde che l'Intelletto supremo resta presso coloro che scelgono la via della vera conoscenza e della virtù; si allontana, invece, da coloro che scelgono di restare nelle tenebre dell'ignoranza e del peccato.
[...]
[21] « [...] di luce e vita, questo è il Dio e il padre, dal quale fu generato l’uomo. Se dunque tu riconosci lui nella sua vera natura, come costituito di luce e di vita, e comprendi che tu derivi da tali elementi, ritornerai alla vita.  » Tali cose disse Poimandres.
[...]
[22] [...] «  [...] io, che sono l'intelletto supremo, sono vicino solamente a coloro che sono santi, puri, buoni e misericordiosi, e a coloro che mi venerano. La mia presenza è per loro un aiuto ed essi conoscono immediatamente tutte le cose, si rendono propizio Dio amandolo e gli rendono grazie onorandolo e dedicandogli inni in virtù dell'amore che provano per lui, e prima di abbandonare il corpo alla morte che gli è propria, hanno ribrezzo dei loro sensi, conoscendone gli effetti. Piuttosto io, l'intelletto, non permetterò che le azioni del corpo, che muovono all’assalto degli uomini, si compiano. Essendo il guardiano chiuderò le entrate alle azioni turpi e malvagie, troncandone i pensieri stessi.
[23] «  Da stolti, malvagi, perversi, invidiosi, avidi, assassini ed empi sto lontano, dopo aver ceduto il posto al dèmone vendicatore, il quale, gettando addosso all’uomo l’ardore del fuoco, lo assale attraverso i sensi e l’induce alle azioni empie, affinché abbia una più grave punizione. L’uomo non cessa quindi di avere appetiti privi di limiti; combatte nelle tenebre senza che nulla possa saziarlo, e ciò lo tortura e aumenta sempre più la fiamma che lo assale.  »
[24-27] Poimandres, richiesto da Ermete, spiega ciò che accade dopo la morte: il corpo e quella parte dell'anima sede delle passioni inferiori ritornano alla natura, dove gli elementi si disgregano e disperdono; invece, la parte superiore dell'anima e l'intelletto salgono verso le sfere celesti, oltrepassandole una ad una e liberandosi d'ogni residuo delle passioni terrene. Al termine dell'ascesa si ritrova nella sfera ogdoadica, conservando la sola propria naturale virtù, e qui si unisce ai suoi compagni, per cantare inni al Padre insieme alle potenze celesti, per divenire infine egli stesso potenza celeste ed quindi entrare in Dio. Questo dunque è l'approdo felice a cui giungono coloro che possiedono la conoscenza, conclude Poimandres, che lascia Ermete per ricongiungersi alle potenze celesti.
[24] [...] «  Quando avviene la morte del corpo, tu lo consegni all’alterazione, e la forma che tu avevi non è più visibile; poi abbandoni al dèmone il tuo essere ormai inattivo, i sensi del corpo ritornano alle proprie origini e tornano a far parte e a mescolarsi con le energie del cosmo, e infine le parti dell’anima, dove hanno sede l'ira e la concupiscenza, fanno ritorno alla natura priva di ragione.
[25] «  E così l’uomo sale verso l’alto attraverso la compagine delle sfere: nella prima zona si spoglia delle facoltà di aumentare e decrescere, nella seconda dell’abilità propria della malizia, dell'inganno ormai privo di effetto, nella terza abbandona il vano desiderare divenuto ora inefficace, nella quarta l'ostentazione del comandare ormai priva di avidità, nella quinta l'audacia empia e la temerarietà dell'ardire, nella sesta i disonesti appetiti generati dalla ricchezza, ormai vani, nella settima, infine, la menzogna ingannatrice. [26] E così, spogliato di ciò che era stato opera delle sfere celesti, si dirige verso la natura ogdoadica, mantenendo solamente la propria naturale virtù, e insieme agli altri esseri innalza inni a Dio. I presenti si rallegrano della sua venuta ed egli, divenuto uguale ai suoi compagni, può ascoltare alcune potenze che, al di sopra della natura ogdoadica, cantano con dolce voce inni al padre. Poi in ordine salgono verso Dio, consegnano se stessi alle potenze, e, divenuti essi stessi potenze, entrano in Dio. Questo è l’approdo felice a cui giungono coloro che possiedono la conoscenza: divenire Dio. E allora, che aspetti? Non ti prepari dunque, tu che da me hai appreso tutte le cose, a fare da guida a coloro che ne sono degni, affinché il genere umano per mezzo tuo possa essere salvato da Dio?  »
[...]
[27-30] Dopo di ciò, Ermete cominciò a predicare fra gli uomini il messaggio ricevuto da Poimandres: alcuni si allontanavano imprecando contro di lui; altri lo seguirono chiedendo di essere istruiti.
[...]
[30] Quanto a me, impressi nel mio cuore i benefici insegnamenti di Poimandres, e così, dopo essermi saziato di ciò che desideravo, fui completamente felice. Il sonno del mio corpo era infatti divenuto veglia dell'anima, i miei occhi chiusi mi concedevano una visione veritiera, il mio silenzio conteneva in sé il bene, l'esprimere parole era un generare cose buone. Tutto questo mi accadde, perché avevo ricevuto dal mio intelletto, cioè da Poimandres, il Logos del sommo Sovrano. Sono venuto dunque pieno del soffio divino della verità. [...]
[31-32] Il trattato si conclude con un'eulogia a Dio.2

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NOTE
1 I sette ministri sono i sette pianeti che, secondo un tema molto comune nello stoicismo, governano il mondo sensibile.
2 Eulogia è la trasposizione letterale del termine greco e definisce la preghiera ermetica.
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29/05/14

CORPUS HERMETICUM - INTRODUZIONE

Quando i Greci entrarono in contatto con l'Egitto, molte loro divinità furono identificate con divinità egizie: fra queste Thoth, assimilato all'Hermes dei Greci. Se Thoth degli dèi era lo scriba, Hermes ne era il messaggero, funzioni entrambe legate alla parola divina da registrare e riferire. Parallelamente, Hermes come Thoth fu sempre considerato l'inventore di tutte le scienze e le arti pratiche, come la scrittura, la medicina, la magia, l'astronomia e altre. All'inizio dell'era cristiana si attribuisce a Hermes la funzione di profeta di Dio, portatore del Logos divino, dove il termine Logos, in un'accezione conferitagli dalla speculazione stoica, sta a significare l'espressione dell'intelletto divino creatore che pervade tutto l'universo, e di cui l'intelletto umano rappresenta una scintilla.
In seguito i Greci distinsero l'Hermes tradizionale greco da quello sincretico di origine egizia, indicando quest'ultimo col duplice nome di Ermete Trismegisto, dove Trismegisto ("tre volte grande") è un epiteto elogiativo ricavato dal superlativo dell'aggettivo greco megistos. A Thot, quale inventore della scrittura, erano attribuiti i libri più antichi esistenti in Egitto, e così Ermete Trismegisto è considerato dalla tradizione l'autore della letteratura religiosa egizia.
I più antichi documenti della letteratura ermetica, a noi pervenuti, sono in lingua greca; risalgono alla prima metà del I secolo d.C. e sono di argomento astrologico. Nulla sappiamo dell'esistenza di scritti ermetici in lingua egizia. Di una letteratura ermetica filosofica o teosofica si comincia a parlare diffusamente dal II secolo d.C. Di questa letteratura ci è pervenuto un complesso di scritti di cui fanno parte il Corpus Hermeticum, l'Asclepio, la traduzione latina di un "Discorso perfetto" e infine gli estratti compilati da Stobeo.
I diciassette trattati che costituiscono il CH ci sono pervenuti attraverso una ventina di manoscritti del XIV, XV e XVI secolo, che risalgono tutti al medesimo archetipo, composto probabilmente fra il VI e il IX secolo d.C. in ambito culturale bizantino. L'Asclepio invece ci è pervenuto insieme alle opere di Apuleio ed è stato dapprima erroneamente attribuito a lui.
La diversità di forma e contenuto dei vari trattati che costituiscono il CH dimostra chiaramente un'origine non unitaria, ma il comune carattere devozionale spinse il compilatore a riunirli in un unico corpus. Due sono le tesi fondamentali circa l'origine e la paternità dei testi ermetici: c'è chi ipotizza che siano sorti all'interno di sette o confraternite ermetiche, allo scopo di raccogliere gli insegnamenti della dottrina (Reitzenstein); c'è invece chi esclude la possibilità di stabilirne la precisa paternità (Festugière). La seconda tesi sembra più credibile, per vari motivi: il carattere non unitario del CH; l'esposizione di dottrine in qualche caso opposte e contraddittorie, che ne tradisce la varia provenienza; la mancanza di indicazioni circa un rituale misterico per i fedeli. Difficile dunque pensare al CH come alla Sacra Scrittura di una setta religiosa; piuttosto, possiamo dire che il fenomeno della letteratura ermetica rientra in una moda letteraria del tempo, per cui si attribuiva a Ermete Trismegisto tutto quanto era considerato scienza occulta. In tal modo, lo pseudonimo di Ermete ha designato una corrente di pensiero, un movimento, come altre volte è accaduto sotto la paternità di altri profeti, persiani o caldei, ebrei o indiani. La stessa somiglianza di questa letteratura con altre contemporanee e vicine di genere profetico, e l'utilizzo di luoghi ed espressioni comuni a tutta la letteratura religiosa dell'epoca imperiale e del tardo ellenismo, fanno pensare piuttosto ad un fenomeno storico-letterario, che all'esposizione di una precisa liturgia.
Questi testi contengono scarsi elementi di ascendenza egizia, per cui difficilmente si può pensare che risalgano ad una fonte egiziana come rivendicato dagli ignoti autori. Piuttosto questi scritti, come tutta la letteratura filosofico-religiosa del tempo, presentano, mescolati fra loro, elementi platonici, aristotelici e stoici, insieme a qualche traccia di misteriosofie orientali, più iraniche che egizie; hanno inoltre molte somiglianze con gli scritti dell'orfismo, gli oracoli dei Caldei e numerosi testi dello gnosticismo cristiano.
In questo carattere composito e frammentario, in questa varietà di temi di elementi, si può ritrovare un costante atteggiamento di pensiero che costituisce l'aspetto unitario di tale complesso di scritti: la conoscenza intesa come rivelazione, la filosofia come scienza della rivelazione, che, secondo le parole di Ermete, « consiste nel solo desiderio di conoscere più profondamente la divinità mediante una contemplazione incessante e una santa devozione ».
È impossibile trovare un'impostazione unitaria che giustifichi e spieghi la giustapposizione di dottrine diverse e per qualche aspetto contraddittorie, né si può ricavare dal complesso degli scritti ermetici le linee di un sistema filosofico. Quel che cercheremo di fare in questa sede è di affrontare la materia evidenziando alcuni concetti chiave e illustrando come questi siano stati sviluppati nei vari trattati, seguendo principalmente l'esposizione del Poimandres che è il più organico e completo.

Divinità e cosmogonia

La concezione di una divinità trascendente è il punto di partenza della dottrina ermetica, come del platonismo del tempo: è derivata direttamente da Platone, il quale ha spesso identificato Dio con il supremo intelligibile, con l'idea del bene e del bello (cfr. Simp. 211a, Fedro 247e, Parm. 138a). Dio dunque, per gli ermetici, è l'Intelletto supremo, il Νοῦς (Nous — "intelletto"), il Padre, avente duplice natura maschile e femminile, e pertanto in grado di generare da solo. Questa concezione di Dio dotato di doppia natura, femminile e maschile, è molto comune nella letteratura filosofico-religiosa del tempo: si ritrova nei neoplatonici, negli gnostici, nell'orfismo ed è strettamente connessa con l'altra concezione fondamentale, per cui la natura propria e peculiare di Dio è il generare. Pure, la nozione di Dio come incorporeo è un luogo comune della filosofia del tempo.
Alla fondamentale concezione della divinità trascendente, che possiamo definire negativa, perché giunge a definire Dio attraverso una serie di negazioni (Dio è ineffabile, invisibile, incorporeo, innominabile, inconcepibile nello spazio e nel tempo, privo di desideri e bisogni etc), la dottrina ermetica fa seguire la concezione per cui Dio è il Tutto e l'Uno da cui ha origine ogni cosa, ogni essere, ogni creatura: Dio è il creatore e il Padre che si identifica totalmente con il prodotto della sua creazione; pertanto Dio è visibile e conoscibile attraverso il mondo, anzi, Dio vuole essere conosciuto dall'uomo quale sommo artefice e ordinatore dell'universo, il κόσμος (Cosmos — "ordine"). Non c'è contraddizione fra le due concezioni di Dio, perché si tratta di due aspetti dello stesso principio: il Nous è Dio non manifestato e l'universo è la manifestazione di Dio. Questa duplice concezione di Dio si ritrova del resto in tutte le tradizioni realmente esoteriche. Nella Kabbala Ain Soph Aur ("luce senza fine") è Dio prima della sua manifestazione, prima cioè dell'emanazione delle dieci sephirot (cfr. Zohar). Nella filosofia vedica un significato analogo è espresso dal termine sanscrito Brahman, la realtà immutabile e infinita oltre e dietro gli universi (cfr. Upanishad).
Il Poimandres spiega dettagliatamente come la manifestazione di Dio nel creato avvenga attraverso esseri intermedi. Innanzitutto il Padre, il Nous, genera il Figlio primogenito, il Λόγος (Logos — "enumerazione", "discorso", "ragione", "legge universale") e quindi un intelletto demiurgico, secondogenito ma consustanziale rispetto al primo. La volontà del Padre attua la creazione tramite l'intelletto demiurgico, traendo dal Logos i modelli archetipali degli elementi, delle cose e degli esseri che andranno a popolare l'universo. È l'intelletto demiurgico, illuminato dal Logos, l'artefice e l'ordinatore dell'universo; anzi, il Demiurgo è il corpo stesso dell'universo, poiché s'identifica interamente nella sua creazione. Anche la nozione di Demiurgo è evidentemente di derivazione platonica (cfr. Timeo), mentre il Logos ermetico è assimilabile quello tradizionale degli Stoici, la ragione divina creatrice che permea l'universo. A questo proposito, c'è da osservare che per l'ermetismo ha luogo un duplice rispecchiamento di Dio nell'uomo: se il Nous si riflette nell'intelletto umano e nella facoltà di conoscenza intuitiva, a sua volta il Logos si riflette nella ragione umana e nella facoltà di conoscenza sensibile. Confrontando tale nozione con concetti analoghi ravvisabili in altre tradizioni filosofiche, quale quella indiana, si potrebbe dire che il Nous si riflette nel Sé superiore dell'essere umano (il veicolo buddhico o Buddhi), mentre il Logos si riflette nel Sé personale (il veicolo mentale o Manas).
Dalla duplice concezione della divinità suprema (la coppia Padre/Nous – Figlio/Logos) deriva la duplice concezione della conoscenza di Dio: il Dio trascendente è oggetto della sola gnosi (tramite l'intelletto); mentre il Dio-Demiurgo, identificandosi con la sua stessa creazione, si conosce attraverso il mondo (tramite la ragione). È importante inoltre evidenziare che, per il pensiero ermetico, Dio non può conoscere se stesso, in quanto in quanto ogni forma di conoscenza implica una dualità tra soggetto e oggetto, mentre Dio è uno. Ne consegue che l'uomo è la via attraverso la quale la creazione può giungere a conoscere la sorgente della creazione stessa: una visione, questa, affine a quella sviluppata dalla letteratura teosofica (da H. P. Blavatsky, a A. P. Sinnett, a A. Besant e altri). 
Il livello divino della cosmogonia ermetica si completa con gli dèi. Creati dal Demiurgo, gli dèi sono esseri, di natura androgina, intermedi fra la triade divina superiore e l'uomo. Chiamati "i sette ministri" nel Poimandres, corrispondono ai sette pianeti che, secondo un tema molto comune nello stoicismo, governano il mondo sensibile, ciascuno con un proprio specifico compito. Tale governo è definito εἱμαρμένη (heimarmene — "destino"), la legge di necessità a cui nessuna azione umana può sottrarsi, e che si oppone alla πρόνοια (pronoia — lett. "che sta davanti all'intelletto", la provvidenza divina), la cui natura è invece razionale.

Uomo e Natura

Dopo aver completato la creazione del cosmo, con i sette ministri che lo governano, e dopo aver impresso movimento al divenire della Natura, l'intelletto divino, il Padre, genera a immagine di sé l'archetipo dell'Uomo, il quale, conosciuta l'opera del Padre, vuole a sua volta produrre un'opera meravigliosa. L'Uomo allora prende dimora nel mondo e si unisce alla Natura, generando sette uomini, di natura androgina, come pure tutte le altre creature in questa prima fase della creazione. Solo trascorsa la prima rivoluzione celeste il legame fra le due nature, maschile e femminile, si rompe e tutti gli esseri viventi si dividono in maschi e femmine, dando così inizio alle generazioni. Per mezzo degli dèi, il Padre pone un'anima in ogni corpo. Compito degli uomini è crescere e moltiplicarsi; dominare tutto ciò che esiste sotto il cielo; conoscere e contemplare la natura e Dio; discernere le cose buone dalle cattive; scoprire le arti per creare le cose buone.
L'uomo, fra tutti gli esseri che vivono sulla terra, è l'unico che possiede una doppia natura: mortale per il corpo, immortale per l'essere essenziale che è in lui. La distinzione fra essenza e materia è eredità del dualismo platonico fra mondo intelligibile e mondo sensibile. L'essenza designa l'essere vero, sempre identico a se stesso, non soggetto alla legge del divenire. Del mondo dell'essenza fanno parte Dio, l'Intelletto, gli intelligibili; del mondo della materia, invece, tutto ciò che è corporeo. Conseguentemente si ha l'opposizione fra i termini derivati (uomo) "essenziale" e "materiale". Il primo termine designa l'uomo che vive conformemente alla sua vera natura, la natura divina, ed esalta la parte divina dell'uomo, l'anima, o meglio la parte più pura dell'anima che è l'intelletto. Il secondo termine designa l'uomo che vive come essere corporeo, confinato a quella parte dell'essere umano che è materia, il corpo appunto. Delle due parti di cui l'uomo è costituito, la parte essenziale è semplice, mentre quella materiale è quadruplice (cioè composta attraverso i quattro elementi).
Il tema della duplicità di natura e di origine dell'uomo è molto comune nell'ermetismo e costituisce motivo di superiorità dell'uomo su tutti gli altri esseri. Infatti, Dio ha creato l'uomo terreno attraverso l'uomo essenziale, l'archetipo dell'uomo, generato a immagine di sé: ciò permette di affermare che l'uomo è di natura divina. Tutti gli uomini hanno l'anima, ma non tutti hanno l'intelletto: infatti l'Intelletto supremo resta solo presso coloro che scelgono la via della vera conoscenza e della virtù; si allontana, invece, da coloro che scelgono di restare nelle tenebre dell'ignoranza e del peccato. Chi è capace di riconoscere in se stesso Dio, può ritornare alla sua originaria natura e identificarsi con Dio.
Viene esaltata la natura mista dell'uomo, intermediario fra gli esseri celesti e quelli terreni; amando gli esseri che sono al di sotto di lui ed essendo amato da quelli che sono al di sopra; capace di penetrare la vastità del cielo come le profondità della terra, grazie alla facoltà dell'intelletto che da Dio gli è concessa. Alla domanda sul perché fu necessario porre l'uomo nella materia, si risponde che Dio questo decise, affinché l'uomo potesse prendersi cura delle cose terrene, ciò che non avrebbe potuto fare senza lo strumento del corpo materiale.

Dèmoni

I dèmoni sono esseri intermedi fra la natura umana e quella divina: come tali, permettono la comunicazione fra i due mondi — quello divino e quello umano — che diversamente non sarebbe possibile, giacché la divinità è ritenuta assolutamente trascendente e inaccessibile agli uomini. A questo nucleo centrale della demonologia, che deriva sostanzialmente dal mito platonico del Simposio, si sono aggiunti successivamente altri temi, tra cui quello dei dèmoni protettori e vendicatori. I dèmoni, in quanto partecipi della natura umana, come gli uomini possono essere moralmente giudicati per le loro azioni, e pertanto esistono dèmoni buoni e dèmoni cattivi. Ai primi spetta la funzione di vegliare sui singoli uomini, proteggerli dal male e guidarli fino a Dio; mentre i secondi tormentano l'uomo durante la vita e lo puniscono dopo la morte se ha vissuto in modo empio. Il motivo del dèmone vendicatore è molto comune nella filosofia delle scuole dell'epoca, come del resto la dottrina dei dèmoni in generale ha un ruolo fondamentale in queste filosofie religiose. Nell'ermetismo, in particolare, l'esistenza dei dèmoni malvagi risolve — almeno in apparenza — il problema dell'origine del male nel mondo (problema a lungo e ampiamente dibattuto, e di non facile soluzione).
Un altro dei temi che si sono aggiunti al nucleo centrale della demonologia è quello dell'identificazione dèmone-anima, secondo cui il dèmone costituisce un passaggio del processo di trasformazione dell'anima umana nel suo percorso di ritorno e ricongiungimento a Dio.

Conoscenza e gnosi

Il tema della conoscenza è di grande rilievo nell'ermetismo. Si distinguono due livelli di conoscenza: l'uomo può conoscere il Demiurgo — come essere corporeo, cioè come universo — con la facoltà di conoscenza sensibile; e può conoscere Dio, come bene, verità e bellezza, con la facoltà di conoscenza intellettiva. Conoscere Dio e riconoscere se stessi come derivati da Dio e dotati della stessa natura di Dio, sono gli aspetti fondamentali della gnosi ermetica.
Il Dio supremo è inconoscibile dalla ragione umana, nozione anche questa desunta da Platone (Parm. 142a). Gli ermetici però introducono un concetto nuovo e parlano di un'altra via per giungere alla conoscenza di Dio: una forma di conoscenza del tutto particolare — definita come gnosis — che si attua mediante l'intelletto, termine che sta a significare tanto l'essenza della natura di Dio quanto la scintilla divina insita nella natura umana. L'intelletto è ciò che rende gli esseri umani partecipi della natura divina e al tempo stesso rappresenta una facoltà conoscitiva sovrarazionale, intuitiva, mistica; un canale attraverso cui l'uomo può ricevere, per grazia di Dio, la vera conoscenza intesa come rivelazione salvifica. La salvezza dell'individuo, infatti, è imprescindibile dal conseguimento della vera conoscenza, che insieme al retto comportamento consente il ritorno dell'anima umana alla sua origine, Dio stesso; e la certezza che tale possibilità esiste, la possibilità di ricongiungersi a Dio, risiede appunto nell'identità della natura umana alla natura divina, come si è detto, tramite il principio dell'intelletto.
L'anima di colui che non ha saputo riconoscere la sua vera natura commette il più grave peccato che la dottrina ermetica conosca, la ἀγνῶσια (agnosia — l'ignoranza di Dio e del divino), che è l'opposto della γνῶσις (gnosis — conoscenza di Dio e del divino), ossia gnosi. Due sono le conseguenze di questo peccato: a) l'anima, ignorando la sua vera natura, diviene schiava del corpo; b) l'anima che ignora se stessa non è cosciente della propria ignoranza e quindi ignora anche quale sia il vero bene, e considera il male come bene.
La gnosi è intesa come dono di Dio a coloro che sono pii e devoti. Strettamente legata alla gnosi è la fede. Si giunge alla fede attraverso la rivelazione e poi la gnosi. Chi possiede la gnosi, e può quindi percepire ciò che non è percepibile con l'umana conoscenza, possiede anche la fede, perché «credere significa comprendere» (cfr. IX, 10).
La divinizzazione dell'anima è il fine della gnosi, e al tempo stesso la gnosi ne è il presupposto, insieme alla liberazione dell'anima dai legami corporei.

Vita e morte, anima e immortalità

La morte assoluta, intesa come totale annientamento, non esiste, perché la morte è solo dissoluzione degli elementi: tema tipicamente stoico. Dopo la morte, il corpo e quella parte dell'anima sede delle passioni inferiori ritornano alla natura, dove gli elementi si disgregano e disperdono; invece, la parte superiore dell'anima e l'intelletto salgono verso le sfere celesti, oltrepassandole una ad una e liberandosi d'ogni residuo delle passioni terrene, per ricongiungersi infine a Dio.
Per quanto concerne la generazione e l'evoluzione delle anime umane, è spiegato che da una sola anima, l'anima universale, hanno avuto origine tutte le anime, con un lungo processo di separazione e individuazione che ha portato ciascuna di esse ad incarnarsi in esseri viventi sempre più evoluti, fino all'uomo; dalla condizione umana poi l'anima può elevarsi a quella divina con il passaggio intermedio alla condizione di dèmone. Questo può accadere solo se l'uomo agisce, nell'esistenza terrena, in modo da fugare le tenebre dell'ignoranza e liberarsi del peccato; diversamente, l'anima non potrà godere dell'immortalità, né partecipare al bene, e sarà destinata a ripercorrere la strada all'inverso fino alle creature viventi inferiori. Il peccato maggiore di un'anima è l'ignoranza delle cose divine; al contrario, la virtù maggiore dell’anima è la conoscenza: colui che conosce, infatti, è anche buono, pio, ed è già divino. L'anima virtuosa non chiacchiera molto e ascolta poco: infatti Dio, il Padre, il Bene, non si conoscono né parlandone, né ascoltandone parlare.
Nell'escatologia del CH la risalita dell'uomo "essenziale" al cielo si attua attraverso varie fasi: 1) l'anima si spoglia di tutto ciò che fa parte del mondo materiale; 2) l'anima perviene alla natura ogdoadica, la sfera delle stelle fisse; 3) l'anima giunge alle "potenze", ipostasi divine; 4) attraverso le potenze, l'anima entra in Dio e s'identifica con Lui.
Nel CH si pone la distinzione fra "eterno" e "immortale". Il primo non presuppone né un principio né una fine, mentre il secondo presuppone un principio ma non una fine. Eterno si può dire di ciò che è ingenerato, Dio; immortale di ciò che è stato generato e ha ottenuto l'immortalità.

Reincarnazione

Nel CH è esplicitamente affermata la dottrina della reincarnazione, intesa come un susseguirsi di vite in forme fisiche sempre più evolute, fino alla forma umana, oltre la quale, per l'anima virtuosa, vi è la liberazione e il ricongiungimento a Dio.
In alcuni passi del CH si afferma che non è possibile che l'anima empia di un uomo assuma un corpo animale, in tal modo regredendo: sarebbe Dio stesso a proteggere l'uomo da «un sì grande oltraggio» (cfr. X, 19). Si tratta di una concezione affine a quella delle dottrine indù e presente anche nella letteratura teosofica. Tuttavia, in altri passi del CH, la possibilità della regressione a forme animali inferiori, come punizione per l'anima empia, sembra restare aperta (cfr. X, 8).

Bene e male, destino e libero arbitrio

Posto che Dio nel CH s'identifica con il Bene, il tema del male connaturato con la materia è platonico e ha origine dalla concezione della materia che tende a ritornare nello stato del caos primitivo. Il mondo della materia dunque non è buono. La concezione che Dio solo sia buono e il mondo sia male è comune negli scritti ermetici e sembra contraddire l'altra concezione, altrettanto comune, del mondo come Cosmos, come immagine di Dio, dove Dio è visibile in ogni singola parte. La contraddizione però è apparente e deriva dall'inevitabile dualità di ogni concetto e di ogni aspetto della manifestazione (cfr. Kybalion). Il mondo è buono in quanto creazione di Dio e immagine di Dio, e in quanto capace di generare e sostentare tutte le creature; ma il mondo è pure all'origine del male, perché la capacità di generare — anche il male — è la qualità essenziale della materia, e perché il male è implicito nella natura della materia di essere perennemente soggetta a forze che la trasformano e la sottopongono all'incessante ciclo di nascita/evoluzione/morte/rinascita... Alla concezione dell'origine del male dalla materia si affianca poi, come si è visto, quella relativa all'attività dei dèmoni malvagi.

Qual è dunque lo spazio concesso al libero arbitrio e alla responsabilità morale dell'uomo? La dottrina dell'heimarmene si ritrova nella letteratura ermetica senza nulla di nuovo rispetto alla tradizione stoica, ma la soluzione che si dà del problema del rapporto fra destino e libero arbitrio, e del valore morale delle azioni umane, è tipicamente gnostica e si allontana completamente dalla soluzione stoica. La soluzione è questa: l'uomo è soggetto al destino per tutto ciò che riguarda la sua natura corporea, ma è libero nel suo intelletto che partecipa della stessa essenza di Dio.
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